A carnevale ogni frittella vale
A carnevale ogni frittella vale.
MONTI. Altro dolce appuntamento, questa volta con le bontà culinarie del carnevale. Solo di questo, forse e purtroppo potremo gioire in questo inizio del 2021 dove la libertà sembra avere spazio solo ad intermittenza. Così in mancanza di festeggiamenti e sfilate cercheremo almeno di godere della varietà di dolci, tipici del primo appuntamento tanto atteso dopo le festività natalizie, il carnevale. È una consolazione di tutto rispetto e per niente magra. In tutti i sensi.
Mani esperte riproducono ricette consolidate nel tempo senza che ne venga intaccata la bontà. Lucidi granelli di zucchero dimenticati sul viso o scivolati sugli abiti sono testimoni di sapori antichi e di desideri che non si possono dimenticare. Chiome bianche invitate al ricordo sorridono con dolcezza ricordando l’euforia dell’assaggio de sa frijola, una vera e propria festa ancor più del divertimento un tempo senza maschere e travestimenti raffinati.
E anche quando la povertà regalava gioie al palato il morbido cordone di farina di grano duro, lievito e scorza d’arancia scivolava nella padella disegnando un vortice a spirale che solo mani esperte potevano realizzare. Il tutto accolto da s’ozu listìncanu (olio di lentisco) finché la doratura non ne segnalava la perfezione della frittura. A concludere poi una cascata zuccherina per addolcire sapori già ben definiti. Oggi le varianti di frittella neanche si contano più ma quella doc porta con sé una trama di ricordi che la tradizione continua a risvegliare.
Sarà perché a carnevale il vezzo accompagna le giornate ma anche un altro dolce carnevalesco presenta una forma in movimento: sas orillettas. Un impasto semplice ottenuto dalla farina di grano tenero, uova e strutto presenta una forma sinuosa che si realizza prima della frittura. Strisce di pasta molto sottile larghe circa due centimetri venivano allora come anche oggi ripiegate su se stesse a mo’ di fisarmonica per poi essere fritte nello strutto e successivamente intinte nel miele bollente. L’acquolina compar al sol pensier…
E se le frittelle e le origliette deliziano i nostri palati prima e dopo i pasti a regnare sulle tavole dei montini il giovedì grasso è su lardajólu (nella consueta pronuncia laldaiolu per la trasformazione della r + consonante in l + consonante). È interessante cercare l’origine anche linguistica del termine. Il dizionario di Pietro Casu così riporta: lardajólu s.m. berlingaccio. Fagher su lardajolu fare il desinare tradizionale il giorno di berlingaccio. Pedire su lardajolu domandare di porta in porta il necessario per il desinare del berlingaccio. In quel giorno anticamente si faceva un desinare pubblico in piazza a base di fave e lardo. (Diz. Treccani, berlingaccio: in Toscana, giovedì grasso, l’ultimo giovedì di carnevale).
M.L. Wagner nel Dizionario Etimologico Sardo (riedizione dell’opera a cura di G. Paulis, Ilisso, 2008, pag. 469) alla voce lárdu specifica che “lardayólu è in tutta l’isola il giovedì grasso; il nome deve provenire dal continente, cioè dai dialetti centromer. (sic. 158 jovidi lardarolu; cal. juovi lardarulu)”.
Anche a Monti vi era la medesima usanza e anticamente le famiglie benestanti offrivano il pasto de su lardajólu ai più poveri allestendo un banchetto in strada. In origine la pietanza era composta soltanto da lardo, cavolo verza e fave e ancora oggi, in una variante più ricca (che comprende anche le costole del maiale, la salsiccia, le castagne, le cipolle e i fagioli secchi), continua ad essere il piatto caratteristico del giovedì grasso.
Inoltre la tradizione, seppure con qualche modifica, continua ad essere rispettata anche per quanto riguarda lo spirito caritatevole che contraddistingueva la ricorrenza: la mattina del giovedì grasso infatti un volenteroso e nutrito gruppo di donne e uomini bussa di porta in porta per tutto il paese per raccogliere generi alimentari da donare alla casa di riposo parrocchiale.
Il carnevale è socialità, convivialità, condivisione. Esattamente ciò che la pandemia oggi ci ha tolto. Ma è solo tutto rimandato. E oggi viviamo con questa speranza e di questa speranza.
Piera Anna Mutzu