Il rito dell’uccisione del maiale nel racconto “su mannale” di Mario Ara Turis
Nel passato, la pratica dell’uccisione del maiale era un rituale comune nella vita contadina sarda. L’animale allevato in casa veniva “sacrificato” e la sua carne utilizzata non solo all’immediato consumo, ma anche e soprattutto per la produzione di salsicce, pancetta e guanciale. Prodotti che rappresentavano le provviste alimentari proteiche per l’inverno. Il processo si divideva in diverse fasi, dalla preparazione del luogo e degli utensili all’uccisione dell’animale, dalla macellazione fino alla realizzazione dei vari salumi. Questo rito viene descritto nel racconto “su mannale”, tratto dal libro “Simili ma non uguali. Ricordi di vita tra Fustialvos e Otis”. L’autore, Mario Ara Turis, con dovizia di particolari spiega, anche con l’utilizzo della lingua sarda, i passi più significativi di un appuntamento che era anche un momento di festa e condivisione con parenti e amici.
«Le stalle e talvolta i sottoscala delle abitazioni erano adibiti al ricovero del maiale d’ingrasso. I prodotti della sua lavorazione avevano, durante l’inverno, una capitale importanza nell’economia domestica. L’allevamento, all’interno delle abitazioni, oggi parrebbe stravagante e antigienico sia per la mole che per le esigenze fisiologiche dell’animale. Questo si relazionava empaticamente con la padrona di casa che, a seconda della tonalità dei grugniti, individuava i bisogni e di conseguenza lo conduceva all’esterno.
Il 13 novembre, nella ricorrenza della festa di Sant’Antioco, aveva inizio la mattanza: quella giornata era di riconciliazione fra i parenti per qualche screzio. Dieci o venti famiglie officiavano il rito di “sa occhida de su porcu”.
Sos massaios e sos carrulantes, in quella data, non si dedicavano al lavoro dei campi. La superstizione profetizzava che, se avessero trasgredito, i loro buoi avrebbero perso le corna (iscorradura).
Aveva inizio il rito dopo aver sistemato in prossimità dell’uscio d’ingresso (su giannile) un robusto tavolo con tutti gli utensili e posto su un treppiede (tribide), con fuoco sottostante, un paiolo (labiolu) d’acqua.
Tre o quattro aiutanti, trasportato su porcu nello spazio antistante l’abitazione, lo atterravano con il dorso a terra e pancia all’aria. L’animale, presagendo la sua fine, emetteva grugniti sempre più alti e frequenti. Un esperto agile e veloce, conoscitore dell’anatomia dell’animale, conficcava, chirurgicamente, su punzone nel cuore e i grugniti (sos ticchirrios) si intensificavano.
Talvolta “l’operazione” era fatta maldestramente e l’animale si svincolava con conseguente parapiglia. I lamenti delle bestie echeggiavano un po’ ovunque e, a seconda dei rioni di provenienza, si individuava il gruppo di famiglia affaccendato.
Il trapasso dalla vita all’Ade era contrassegnato dai movimenti convulsi e accelerati degli arti. Tutt’intorno un coro: «Est fattende sas calzettas!!». Recuperate le setole (tuddas) per il calzolaio, seguiva la pelatura (usciadura) fiammeggiando con stoppie (restuju) di arbusti di ginestra selvatica (usciadrina) che rapidamente si riducevano in cenere svolazzante: un leggero odore di setole bruciate si diffondeva tutt’intorno.
Quattro uomini forzuti posizionavano su mannale, preso di peso, su una scala lignea a pioli. Le donne, con le spazzole e acqua calda, strofinavano la cotenna eliminando la cenere de s’usciadura e altre impurità. Gli aiutanti, ancorati gli arti ai correnti con le funi, poggiavano la scala al muro di facciata con una ben definita inclinazione per la staticità. Il maiale si presentava, da morto, con tutta la sua imponenza: gli arti posteriori, nella parte alta, stretti con funi ai correnti, gli anteriori, verso il basso, ancorati con ganci metallici ai fianchi della bestia e la testa (su concale) a un’altezza da terra di 40-50 cm.
Un aiutante, a partire dalla coda, squarciava in senso verticale il ventre e la pancia con un lungo e affilato coltello. Estratte le interiora, gli uomini assaporavano una porzione di fegato crudo e fumante.
La scenografia era completata da un nugolo di bambini impegnati nel recupero delle unghie, delle estremità delle orecchie e della coda che rosicchiavano con avidità: un buon sapore di abbrustolito! Le donne, nel mentre, mestavano lentamente il sangue raccolto in un contenitore di terracotta (tudinera) affinché non si formassero grumi.
L’intestino, lavato con abbondante acqua, era così utilizzato: quello crasso come contenitore del sangue per i sanguinacci, quello tenue invece per le salsicce.
L’aria insufflata conferiva alla vescica (sa buscica) la forma di palla e veniva utilizzata come contenitore per lo strutto. Se si era fortunati si potevano sentire esclamazioni di esulto in relazione allo spessore del lardo, che veniva misurato con le dita del palmo della mano. L’arrosto di fegato, di polmoni, cuore, rognoni, sanguinacci e la pancetta era la base del pranzo, e il tutto veniva accompagnato con vino abbondante. Si elevavano, nel brusìo generale, le note delle canzoni “a sa logudoresa”.
Sos massaios e sos carrulantes, alticci, si spostavano dal rione “comunista” a quello democristiano e viceversa “pro pesare briga”: erano una categoria brigajola. A pomeriggio inoltrato, quietati gli spiriti, si pezzava la carne “pro sos ispinos” per essere poi distribuita tra parenti e amici.
Il giorno successivo, separata la carne dal lardo, veniva impegnato per la confezione delle salsicce, guanciali (nastula), pancette, lardo, parte della testa, i piedi e porzioni di cotenna (corzolu) che, salati abbondantemente, erano fondamentali per cucinare su fae e lardu. Sos abiles (grasso interno dell’animale) frammisto al lardo sminuzzato, e portato alla fusione, veniva conservato in contenitori di terracotta per la provvista. Il precipitato della fusione (sa erda) era utilizzato invece nella preparazione delle focacce (sas cozzulas de erda).
Lunghe aste legnose (sas estigas), sistemate nel sottotetto incannicciato, ricevevano le salsicce, le pancette e sas nastulas. Mentre un blocco di tufo incavato (foghile) aveva l’utile impiego per l’affumicazione. Per questa operazione veniva utilizzata la legna di cisto e di lentischio (mudeju, chessa). Su chivalzu, al mattino, preventivamente inumidito e impregnato di lardo fuso al calore della fiamma del fuoco di cisto, era la colazione di sos massaios e carrulantes.
Le famiglie numerose difficilmente portavano a completa stagionatura le provviste, infatti i componenti maschi, a turno, alleggerivano sas estigas dal peso delle salsicce. La capo famiglia si stupiva pensando che si fossero introdotti i ladri nel sottotetto… Ma che ladri!? Era solo fame!!
Tutte le parti del maiale erano utilizzate fuorché “sos ticchirrios de sa morte”.
Mario Ara Turis
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