Lo chef ozierese Monserrato Marini dopo Londra conquista Dubai
L’incredibile storia dello chef ozierese Monserrato Marini che, partito a 27 anni dalla Sardegna, è riuscito a conquistare con la sua cucina, prima la metropoli londinese e poi la città araba di Dubai. In una intervista-racconto tutto il suo percorso professionale.
Chi emigra dalla Sardegna, nel bene e nel male, resta sempre profondamente legato alla sua anima, un amore viscerale che neanche il tempo, il successo, o una nuova vita riescono a mitigare. Se da un lato, la sua straordinaria bellezza, il suo fascino enigmatico, l’ospitalità, l’intelligenza e l’operosità dei suoi abitanti sono qualità che pochi popoli al mondo possono vantare, dall’altra parte c’è una terra apatica, rassegnata e ripiegata su sé stessa. Un’Isola distante, distratta e inerme nel momento in cui deve dare risposte al suo popolo; sempre parca nell’offrire prospettive e opportunità di lavoro ai suoi figli, anche a quelli più bravi e volenterosi. L’unica strada per molti è stata ed è ancora l’emigrazione, la sola opzione per trovare quella stabilità economica e sociale che qui, nella terra dei nuraghi, è tremendamente difficile da conquistare.
Su questi passi si muove la storia del 43enne ozierese, Monserrato Marini, emigrato da Ozieri all’età di 27 anni per trovare fortuna all’estero. Buona sorte che poi ha incontrato, tra sacrifici e lavoro duro, tra le cucine londinesi e arabe di Dubai, diventando nel tempo un apprezzato chef di fama internazionale.
«Ho lasciato Ozieri nel dicembre 2004 a 27 anni – racconta Monserrato –, qui avevo già preso in gestione il Bar Italia, l’intenzione era anche quella di aprire un ristorante ma, per una serie di ragioni, il destino non mi ha offerto questa opportunità. Quindi ho deciso di adare a lavorare in Costa Smeralda e più precisamente a Poltu Quatu, dove poi è iniziato tutto».
Dunque, sei convinto che la tua vita sia cambiata proprio da quel preciso momento?
«Certamente, spiego il perché. Da quando ho iniziato a lavorare a Poltu Quatu ho compreso immediatamente quale poteva essere la mia strada. Ho capito che potevo farcela. Nonostante non avessi mai cucinato prima, ho iniziato a preparare qualche piatto, cose semplici, come snack. Poi ho cominciato a collaborare con persone professionalmente preparate, che avevano fatto esperienze in cucine di alto livello. Così, giorno dopo giorno, assorbivo tutto, capivo, insomma… ero diventato una spugna».
Quindi, prima di quel momento non avevi mai cucinato…
«Proprio così. L’unica cosa che avevo fatto prima di allora era osservare mia madre ai fornelli, che cucinava per me e per tutta la famiglia. Eravamo in 10 ed io, essendo l’ottavo figlio, non potevo fare altro che assaggiare (ride) quello che lei preparava».
E dopo l’esperienza di Poltu Quatu?
«Come ho già detto, da qui è partito tutto. Infatti, conclusa la stagione, mi venne l’idea di andare a trovare il mio amico Carlo, che al tempo viveva in una cittadina vicino a Londra. Decisi di partire insieme a quella che adesso è diventata mia moglie. Dopo un periodo passato con Carlo alla vana ricerca di un’occupazione, siamo partiti all’avventura con destinazione centro di Londra. Nonostante qualche difficoltà, legate alla cultura, alla lingua e ai ritmi di vita e abitudini completamente diversi a cui ero abituato in Italia, riuscii a trovare ugualmente un impiego in un ristorante italiano, nel cuore di Londra a Trafalgar Square. In una settimana di lavoro avevo già assimilato il menù, e capito come preparare tutti i piatti. Allo stesso tempo però volevo guadagnare più soldi e poter essere più indipendente. Allora chiesi al titolare di lavorare qualche ora in più. La risposta secca: “Più lavori più ti paghiamo”».
Una risposta eloquente e un’opportunità che sicuramente non ti sei fatto sfuggire…
«Certo. Non volevo tornare assolutamente a Ozieri. Ero disposto a tutto, anche a lavorare 24 ore al giorno. La notte a casa divoravo libri di cucina e studiavo, nel lavoro stavo attento a tutto. Si iniziava alle 9 e si finiva alle 3. Mi concedevano 2 ore di pausa e riprendevo alle 6, fino all’una di notte. Era molto pesante, faticoso, ma il lavoro non mi ha mai spaventato. Dopo appena 3/4 settimane sono passato dalla preparazione delle insalate ai primi piatti, poi, dopo 3 mesi, ai secondi. Tutto questo però non mi bastava, allora decisi di andare via».
Come mai… perché?
«Volevo imparare cose nuove. Dopo il ristorante di Trafalgar Square ho trovato lavoro in un hotel, dove ho avuto la fortuna di incontrare uno chef italiano con due stelle Michelin. Un cuoco bravissimo, un maestro con più di 40 anni di esperienza dal quale ho appreso molti trucchi e imparato tantissime tecniche culinarie. Andato in pensione e preso il suo prestigioso posto, sono diventato l’executive chef di tutto l’hotel. Un bel passo in avanti. Tant’è che ho vinto nel 2007 il premio come miglior chef dell’anno di Londra. Dopo abbiamo vinto il premio come Best Italian Restaurant, Best Hotel e la segnalazione nella guida Michelin, un riconoscimento che mi ha dato notorietà e un’ulteriore consapevolezza dei miei mezzi».
Sei diventato famoso allora?
«Non sono diventato famoso, ma mi sono fatto il nome nell’ambito della ristorazione, questo sì. Infatti dopo quel premio sono stato contattato più volte per rilasciare diverse interviste televisive. Nel frattempo, poi, sono andato a lavorare in un altro locale al centro di Londra, a Maryilebone, in cui, sempre come executive chef, sono arrivato a gestire tre ristoranti con più di 60 dipendenti. Il menù era principalmente basato sulla cucina toscana, ma anche sarda grazie all’utilizzo nei miei piatti della fregola, della bottarga e dei carciofi, rigorosamente importati dalla Sardegna. Durante questa l’esperienza ho collaborato anche alla stesura di un libro con 400 ricette, 300 delle quali ideate da me stesso».
Che differenze hai trovato con l’Italia?
«In Inghilterra hanno una mentalità molto aperta. Si va via di casa da giovani. La vita è tutta improntata sul lavoro, non esistono raccomandazioni. Se vali vai avanti, non importa di chi sei figlio».
Questa mentalità acquisita, quindi, ti è servita per raggiungere altri obiettivi?
«È così. Quando credi in te stesso, nulla è impossibile. Per questo ad un certo punto ho deciso di cambiare ancora e di aprire un locale con un mio amico napoletano. Abbiamo preso in gestione un ristorante a Notting Hill, un quartiere chic di Londra. In questo ambiente ho conosciuto diverse persone famose come Robin Wiliams e Mick Jagger. La mattina non lavoravamo, iniziavamo alle 3, aprivamo alle 7 fino alla notte. Dopo tre anni, ho cambiato ancora e ho intrapreso una nuova avventura in un locale nel quartiere di Chelsea, qui cucinavo per Briatore, Valentino, Capello e tutti i giocatori della squadra di calcio del Chelsea e di tante altre squadre della Premier League. Tra i personaggi famosi che frequentavano il locale, quello più simpatico era Carlo Ancelotti, un signore in tutti i sensi».
Se l’Inghilterra professionalmente ti ha dato tanto perché poi hai deciso di trasferirti a Dubai?
«Diciamo che è stata una fatalità, infatti dopo varie consulenze in diversi ristoranti londinesi in grosse difficoltà economiche, ho puntato gli occhi su un ristorante nei pressi dello stadio dell’Arsenal, più precisamente a Finsbury Park. Subito dopo presi la decisione di prenderlo in gestione e rimettermi in gioco un’altra volta. La fatalità ha voluto che venisse a mangiare da me il proprietario dei famosi ristoranti Scalini, il quale aveva sentito parlare bene del mio ristorante. Mi propose subito di andare a lavorare per l’apertura di Scalini a Dubai, negli Emirati Arabi. La cosa non mi interessò subito, perché comunque il mio locale stava andando bene, si lavorava abbastanza. Nonostante la mia riluttanza mi lasciò ugualmente la sua business card, sapeva quello che voleva. Un giorno infatti si presentò con un contratto di lavoro irrinunciabile. E così, presi la decisione insieme a mia moglie, di intraprendere una nuova avventura, questo dopo13 anni passati a Londra e la nascita della nostra piccola Camilla. Poi, riconsegnate a malincuore le chiavi del ristorante al proprietario, siamo partiti per Dubai. Era il settembre del 2017, la mia bimba era nata da appena un mese».
Come è stato il primo impatto con una terra sconosciuta?
«I primi 3 mesi sono stati durissimi, perché lo stile di vita è completamente diverso da quello europeo. Gli arabi mangiano diversamente, vogliono tutto e subito. Il ristorante era sempre pieno e il menù tutto italiano. Il popolo arabo infatti ama la nostra cucina e la nostra cultura. In due anni di lavoro in questo locale ho conosciuto tante star, tra cui Gerard Depardieu con il quale ho un rapporto bellissimo, tra l’altro parla benissimo l’italiano. Ho conosciuto anche due sardi, i famosi fantini Dettori e Atzeni.
Il lavoro da Scalini è andato talmente bene che in quei due anni ho seguito anche un’altra apertura della stessa catena di ristoranti, ma in Arabia Saudita, più precisamente a Gedda, dove il successo e le soddisfazioni non sono mancate. Dopo il ritorno a Dubai, passati i tre mesi di permanenza a Gedda, mi arriva l’ennesima opportunità, un’altra offerta allettante di lavoro in un altro ristorante. Una nuova sfida con la quale rimettermi in gioco ancora una volta. Il locale non stava andando per niente bene, ma aveva grandi potenzialità da sfruttare, una su tutte: la prestigiosa visuale sul Burj Khalifa, il grattacielo più alto al mondo! Ad oggi è uno dei ristoranti che più lavora a Dubai».
Da questa tua storia si è ben capito che non riesci a stare troppo tempo nello stesso posto, come mai?
«Sono fatto così. Mi metto sempre in discussione, ho sempre voglia di imparare cose nuove e andare avanti il più possibile. Lavorare in cucina è difficile, richiede tanto sacrificio. Mi sono costruito un nome e per cui devo dimostrare continuamente ogni giorno quello che valgo».
Dopo tutti questi anni fuori dalla Sardegna, cosa ti manca di più della tua terra?
«Della Sardegna sicuramente mi mancano i suoi profumi e i suoi odori! Però ora vivo in un paradiso. A Dubai si sta benissimo: mare e sole tutto l’anno! Non mi manca niente ho un lavoro che adoro e una bella famiglia, abito in un attico al 21º piano, ho il mare intorno, piscina con vista sulla marina, la scuola di mia figlia sotto casa, che cosa chiedere di più…».
Ritorneresti a vivere a Ozieri?
«Proprio a Ozieri no. Se dovessi tornare in Sardegna, il mio sogno è quello di acquistare una casa vicino al mare, e passare lì la vecchiaia».
Credi in Dio?
«Sì, sono credente. Mi sono sempre rivolto a Dio sia nei momenti di difficoltà, sia in quelli più felici. Sono convinto che quello che ci toglie prima ce lo dà dopo, occorre credere sempre in Lui. Ho iniziato a lavorare come carpentiere, poi come barista per diventare uno chef affermato. Se questo non è un disegno di Dio, allora…».
Hai sudato tanto per arrivare dove sei ora, ma ancora più difficile è rimanerci.
«Sicuramente. Nessuno ti regala niente. Tutti i giorni devi fare i conti con gli altri, anche con l’invidia. Se guadagni bene non sei visto di buon occhio, non puoi sbagliare, devi sempre dimostrare sul campo che sei forte, altrimenti vieni fatto “fuori”».
La grinta del centrocampista applicata in cucina…
«Proprio così. Quando giocavo a calcio la mia qualità in campo era proprio la grinta, la stessa che metto in cucina, dove devi sgomitare, dove devi presentare bene i piatti, dove devi saper trattare con la gente, dove devi essere furbo e anche un bravo imprenditore, dove ti devi far rispettare e far guadagnare l’azienda».
Cosa pensi, se guardi con gli occhi del presente il tuo al passato?
«Che è stato un percorso duro. Non ho studiato, è vero. Ma con la dedizione e l’impegno alla fine sono arrivato a essere qualcuno. Niente è impossibile nella vita se lavori con il cuore. Non ho un pezzo di carta, non ho frequentato l’istituto alberghiero, ma qua tutti mi rispettano perché io rispetto tutti e perché forse sono diventato bravo. A Ozieri ho fatto il carpentiere, non lo volevo fare, ma c’era quello. Mi è servito per farmi crescere, per farmi capire che cosa è il lavoro, il lavoro duro».
Che cosa vuoi dire ai tuoi tanti amici e alla tua amata città di Ozieri.
«Ormai sono tanti anni che vivo fuori. Nonostante questo, ho sempre un ricordo vivido di tutti, con molti amici mi sento ancora. Il sentimento per la mia città, per un ozierese come me, è di odio e amore. Di odio perché non mi ha permesso di rimanere in Sardegna, di amore perché mi ha fatto crescere e capire che, malgrado tutto, noi ozieresi quando crediamo in noi stessi possiamo raggiungere qualsiasi obiettivo».
Antonello Sabattino
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