La civiltà degli stazzi: dalla trebbiatura alla panificazione
Nel mondo agropastorale il mese di luglio era e continua ad essere un mese davvero impegnativo, uno dei tanti in realtà. Nella civiltà degli stazzi la raccolta del grano e le successive lavorazioni del prodotto ottenuto contribuivano all’approvvigionamento indispensabile per la sussistenza del gruppo familiare. Il termine gallurese aglióla (alzola in logudorese) indica sia il mese di luglio che la trebbiatura, attività agricola svolta proprio in questo periodo dell’anno.
Il grano coltivato in Gallura era quello tenero o corso, lu tricu còssu (trigu corsu logud.), la cui qualità veniva considerata la più adatta per preparare i vari tipi di pasta, pane e dolci. Per portare a termine l’attività agricola veniva utilizzato lu rótu, uno spazio di varie dimensioni ottenuto disponendo in cerchio massi di granito.
Si tratta di una struttura artificiale che non tutti gli stazzi possedevano ma i proprietari degli insediamenti rurali che ne erano dotati lo mettevano a disposizione, in linea con il forte spirito comunitario che caratterizzava gli abitanti. Esso presenta un bordo di contenimento che rialzato di venti o trenta centimetri rispetto al piano di calpestio evitava che il grano si disperdesse. Chi non aveva a disposizione una struttura appositamente destinata, effettuava la trebbiatura su uno spiazzo granitico purché pianeggiante e ampio.
Una volta raggiunta la struttura (artificiale o naturale) il contadino, dopo aver tagliato la prisògghja del covone, vi spargeva li maniati, mazzi di spighe equivalente ciascuno alla quantità contenuta in due pugni. Subito i buoi con un lento procedere iniziavano a girare attorno a lu piòni (robusto palo conficcato al centro de lu rótu) trascinando li petri d’aglióla, masso di granito di forma allungata e appiattita che serviva a comprimere la massa di spighe che piano piano restituivano il grano dorato. Dapprima procedendo in senso orario poi antiorario per evitare le vertigini alle bestie. Al termine dell’operazione venivano utilizzati li pali pal vintulà per sollevare il frumento e far sì che la pula (veste del grano) si separasse dai chicchi.
Dopo aver sistemato il grano nei sacchi di iuta si rientrava nello stazzo dove si aveva cura di riporre l’oro ambrato ne lu casciòni di legno, forato nella parte bassa per garantire l’areazione. Nella parte inferiore era presente anche una piccola porticina lignea, la merrulicchja, dalla quale la massaia faceva scivolare il prodotto destinato alla macinazione.
A seguito di quest’ultima operazione le donne di casa potevano poi occuparsi della setacciatura che avveniva con diversi tipi di crivello, manufatto tra i più complessi fra gli intrecci in giunco. Lu culìri (su chilìru logud.) garantiva nei vari passaggi l’ottenimento della crusca (lu brinnu gallur.; su telàu logud.), del cruschello (lu brinnéddu gall.; su chivarzu logud.), della semola (la simbula gallur.; sa sìmula logud.) e della farina (lu pòddini gallur.; su pòddine logud).
I vari setacci che le donne avevano a disposizione presentavano diverso diametro con maglie più o meno strette proprio in relazione al tipo di setacciatura che si voleva ottenere e al prodotto che si voleva confezionare: pasta fresca, dolci oppure pane. Mentre la produzione dei primi due era legata generalmente ad occasioni e festività, il pane veniva preparato ogni settimana. Tappa preliminare della massaia era ravvivare il lievito conservato dalla panificazione precedente, sciogliendo la massa di pasta con un po’ di acqua calda e aggiungendo una spolveratina di farina.
L’indomani una piccola parte de la matrìca (sa madrighe logud.) veniva lasciata per la panificazione della settimana successiva e poi si avviava la lavorazione dell’impasto composto da farina, acqua e matrìca per ottenere pagnotte o pane attorcigliato e allungato. La cottura nel forno poi costituiva un degno epilogo per la fatica profusa e profumi inebrianti si disperdevano nell’aria.
Mentre le attività agropastorali impegnavano gli uomini di casa, le faccende domestiche scandivano così le giornate delle donne di famiglia. Certo il duro lavoro che contraddistingueva gli abitanti degli stazzi si allinea forse con fatica alla visione un po’ romantica che proviene dalla modernità. Ma è senz’altro vero che l’aiuto reciproco, il profondo rispetto dell’altrui necessità, una genuinità forse perduta ci spinge ad etichettare quella vita, neanche troppo lontana nel tempo, come capolavoro di umanità e accoglienza e incorniciare luoghi ed eventi come un passato di nostalgia.
Piera Anna Mutzu
Nella foto: stazzo di Chirialza (in territorio di Monti) costruito nel 1893