• 21 Novembre 2024
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La leggenda popolare di Maria Zuffia (o Zuffrina)

Maria Zuffia 2
Racconti.

Quante volte in Sardegna avete sentito parlare di Maria Zuffia? Sicuramente tantissime: le mamme o le nonne la paragonavano spesso alle loro piccole figlie o nipoti che andavano a scuola o uscivano da casa spettinate.
“Dove stai andando con quei capelli? Mi pares una zuffia!” – così appunto si dice tutt’oggi per descrivere una fanciulla dai capelli disordinati come fosse una strega. Da dove ha origine il detto?

Si narra che tanto tempo fa viveva in un paese una signora dai capelli canuti e tanto ricci da rendere impossibile ogni tentativo di pettinarli. Durante la sua giovinezza veniva spesso derisa per via delle sue buffe acconciature, tanto che più passavano gli anni e più il suo carattere diventava introverso e schivo. Arrivata all’età di circa vent’anni i suoi genitori morirono a breve distanza l’uno dall’altro, per cause naturali.
Ebbero modo di dirsi addio, prima di lasciare questo mondo, che li aveva visti trascorrere un’esistenza fatta di sacrifici ma anche di tanto amore e serenità.
Maria rimase sola in casa e per tirare avanti si dedicava notte e giorno al lavoro.
Nella sua abitazione cera un vecchio telaio che veniva utilizzato dalla madre quando era ancora in vita e che la donna, a sua volta, aveva ereditato dai nonni. Nei secoli andò diffondendosi la prescrizione secondo la quale il telaio non dovesse mai passare da madre a figlia, ma solo da nonna a nipote. La leggenda narrava infatti come questo telaio dovesse saltare una generazione e chi avesse infranto questa prescrizione, sarebbe diventata matta.
Maria, ignara della tradizione, vi lavorava con gran fervore.
Notte e giorno, giorno e notte, in continuazione e senza sosta filava e tesseva, sempre con i suoi ciuffi ribelli a coprirle il viso.
I suoi tappeti divennero richiestissimi e sempre più pregiati, le furono commissariati lavori e ordini anche da altri centri del circondario.
Sebbene ci fosse bisogno dell’aiuto di altre donne, ella preferì sempre adoperarsi da sé, avvolta nel suo silenzio. Non si faceva mai vedere da nessuno, vittima dei complessi derivanti dallo scherno dei compaesani.
Depositava le sue creazioni ultimate e pronte alla consegna dentro delle grandi ceste, le quali all’esterno recavano il nome dei clienti che le avrebbero dovute ritirare.
Si dice che qualcuno sia riuscito a vederla tra l’oscurità delle sue mura domestiche. La descrivevano come una donna invecchiata anzitempo, che non aveva altra attività oltre a quella del filare e del pettinare la folta chioma di capelli ricci e arruffati che tuttavia non riusciva mai ad acconciare. Aveva sempre con sé un grosso pettine di ferro arrugginito che suo padre utilizzava per lisciare il pelo agli animali della sua fattoria. Era l’unico modo che aveva per tentare almeno di domarli.
Nonostante fosse un personaggio singolare, aveva avuto in dono un’abilità capace di suscitare non poche invidie. Queste spesso sono causate dalla bellezza, dall’intelligenza, dalla ricchezza. Nel suo caso, questo sentimento nacque dalla sua abilità nel tessere. Si venne a sapere che addirittura i Reali piemontesi che soggiornavano a Cagliari avessero ordinato una grande quantità di tappeti per le loro dimore. Tutti in paese furono meravigliati quando videro i nobili giungere nel loro borgo con una bellissima carrozza, dando così tanta importanza e denaro a quella donna che tutti fuggivano.
Durante una notte, dei compaesani spavaldi e ubriaconi, mentre sorseggiavano l’ennesimo bicchiere di vino, decisero di tesserle un perfido tranello.
Sfondarono il grosso portone della sua casa, la legarono a una sedia e la derisero. Come se non bastasse, le portarono via tutti i lavori che con gran cura aveva confezionato per i Reali e ne fecero un grande falò nel centro della piazza.
Gli abitanti del paese accorsero incuriositi vedendo le grandi fiamme alzarsi al cielo. Molti risero a crepapelle complimentandosi con gli artefici dell’orribile scherzo.
Ridevano gli uomini, le donne e pure i bambini.
Maria era sola a casa, ricurva su stessa sul pavimento, addolorata, ferita nella sua dignità, ma da lì a poco avrebbe scoperto un segreto che la leggenda custodiva a proposito del suo telaio e che i suoi avi conoscevano molto bene.
Quando il telaio veniva ereditato senza saltare una generazione, questo acquisiva poteri magici. Filava e tesseva all’infinito dando la possibilità a chi lo utilizzasse di diventare ricco.
Si sa, la magia ha sempre un prezzo, dà e chiede in cambio. Il prezzo da pagare era la follia, chiunque si fosse avvantaggiato di questa fortuna diveniva pazzo.
Fu così che con grande stupore vide il suo telaio lavorare miracolosamente tutta la notte, senza mai fermarsi. Tessé degli splendidi tappeti con dei ricami in oro, ancora più belli di quanto ella stessa li avesse mai pensati. Così, tra l’incredulità generale, riuscì a effettuare la sua consegna. I nobili furono entusiasti delle sue creazioni.
Gli abitanti del paesino si chiesero come diamine avesse fatto in una sola notte a produrre tutti quei tappeti, ancor più meravigliosi di quelli che qualche ora prima erano stati dati alle fiamme.
Maria se ne stava in casa soddisfatta, seduta sulla sua sedia a dondolo, si godeva finalmente alcuni attimi di felicità ritrovata dopo tante sofferenze. Improvvisamente, colta da un fortissimo mal di testa, si gettò a terra e iniziò a dimenarsi e contorcersi su se stessa. Il dolore si fece sempre più forte e fu così che si avverò quanto predetto.
Divenne pazza.
Il mento sempre più aguzzo, la gobba ancora più accentuata, dei grossi artigli nelle dita, gli occhi scavati e pieni di odio, sulla testa un velo bianco ricamato.
Dentro di sé una terribile ossessione la spinse ad architettare un piano diabolico. Meditò una vendetta orribile.
Sapeva che tutte le donne del paese, prima della festa patronale, solevano recarsi presso una fontana poco distante dalla sua casa. Era buon auspicio, infatti, berne l’acqua per assecondare la tradizione secondo la quale questa ritualità portasse benefici alla salute, alla fertilità e che allontanasse la malasorte.
Si recò lì qualche ora prima e gettò nell’acqua un miscuglio di erbe polverizzate mischiate a cenere, un impasto che aveva l’effetto di un potente sonnifero, capace di far dormire per giorni chiunque l’avesse bevuto. Così, in fila indiana, tutte le donne di ogni età si recarono alla fonte per rinnovare il voto. Ogni donna aveva una sua ciotola, spesso recante il nome di famiglia o una preghiera al Santo a cui era devota. Quando l’ultima di queste ebbe bevuto, caddero tutte in un profondo torpore.
Maria portò fuori il suo telaio, prese per i ciuffi ogni testa delle malcapitate e iniziò a tessere e filare usando i loro capelli, stracciandoli dalla cute. Riuscì a realizzare un grande tappeto che distese lungo la via principale del villaggio.
Quando gli uomini tornarono dai campi furono incuriositi dall’enorme e strano manufatto, pensarono subito fosse un’orribile creazione di Zuffia, e, almeno su questo, non si sbagliavano, ma mai e poi mai avrebbero potuto immaginare che la materia prima di quell’opera le fosse stata fornita dalle loro donne.
Si misero a correre, ciascuno presso la propria abitazione, sentivano dentro di loro che qualcosa non andava. Non trovando le loro mogli, presero fiaccole e fucili e a colpo sicuro si diressero verso la casa di Maria. Niente. Della donna nessuna traccia e nemmeno del suo famoso telaio.
Organizzarono una squadra di ricerca, pensarono al luogo in cui le donne potessero trovarsi e venne loro in mente la fontana, dove durante il giorno si erano recate. Giunti a destinazione rimasero ammutoliti dinanzi alla raccapricciante scena che i loro occhi videro. Le mogli ammassate come bestie da macello, i crani sanguinanti con i solchi dello scalpo e, accanto alla fontana, Maria, ormai completamente impazzita, che rideva con gli artigli tra i denti.
Subito il gruppo si divise: alcuni andarono a prendere i carri per portare in salvo le donne, mentre i restanti accerchiarono Maria, la presero con forza e la sottoposero ad esecuzione capitale.
In paese si gridò alla vittoria, giustizia fu fatta.
Gli uomini cercano spesso di attribuire nome e cognome al Male, qualcuno a cui attribuire tutte le responsabilità, far patire le conseguenze. La ricerca del capro espiatorio è l’atto irrazionale per cui si ritiene una persona responsabile di essere fonte del male. Questo fu il destino beffardo di cui fu vittima. Si sa, la storia viene scritta dai vincitori e Maria Zuffia, sconfitta, divenne prima vittima sacrificale della malvagità collettiva, poi diabolica creatura di una leggenda popolare.

Pasquale Demurtas

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