Scomparso Nino Petretto: fu sequestrato nel 1968 da Mesina
Nelle mani della banda di Graziano Mesina per 34 giorni, Nino Petretto è stato liberato dopo una lunga trattativa e il pagamento di un riscatto di 5 milioni di lire.
OZIERI. Si è spento domenica scorsa all’età di 87 anni Nino Petretto. Salito alla ribalta delle cronache nazionali 53 anni fa per una triste vicenda legata a doppio filo con quella di Graziano Mesina.
Nel 1968, infatti, l’allora 34enne ozierese è stato vittima di un rapimento, insieme al figlio di 6 anni, Marcellino, portato a termine dalla Primula rossa del Supramonte. Erano gli anni bui dei sequestri di persona. In quel periodo, tra le persone finite tra le mani di Grazianeddu, c’era anche un altro ozierese, Giovanni Campus. Il quale trascorse parte della sua prigionia proprio insieme a Nino Petretto.
Oltre a queste due persone, Ozieri annovera nella sua storia recente altri due sequestri dell’Anonima: quello di Piera Demurtas nel 1987, nelle mani dei banditi per ben 118 giorni e di Antonio Marras nel 1994, che riuscì a scappare e a mettersi in salvo dopo due giorni di prigionia nei monti di Oliena.
Da ricordare anche tre tentati sequestri: due ai danni del possidente Nanni Terrosu, uno nel marzo del 1968 e l’altro nel marzo del 1971 e un terzo subito dal medico Gavino Bacciu nel febbraio del 1987.
La storia del sequestro Nino Petretto tratta dal libro di Teresa Pala «Passato da raccontare con amore e per amore…», seconda parte.
«Nino Petretto abitava nella casa di “vigna” con i genitori, la moglie Lucia Farina e i due figli: Marcellino di sei anni e Giovanni Antonio di quattro mesi. La sera del 16 marzo 1968, intorno alle ore 19, chiusa l’officina della concessionaria Fiat, Nino, insieme al figlio, mentre ritornava a casa, fu bloccato da alcune persone incappucciate e mascherate e con un mitra spianato. Fermata l’automobile fecero scendere Nino dal posto di guida costringendolo a sedere sul sedile posteriore insieme al figlio e a Graziano Mesina. Si misero in viaggio sulla statale che porta a Pattada.
Arrivati alla stazione del paese, Nino chiese ai banditi di affidare Marcellino al capo stazione, persona da lui conosciuta. La proposta non venne accetta. Diedero 300 lire al piccolo con la promessa che se avesse fatto da bravo gli avrebbero dato altre 1.000 lire. Lo portarono invece in un ovile e lo consegnarono a un pastore, il quale avrebbe dovuto portarlo l’indomani mattina nella caserma dei carabinieri di Pattada. L’uomo però, mosso da compassione, disubbidì, e la stessa notte accompagnò il piccolo alle forze dell’ordine.
Nel frattempo i quattro banditi, dopo aver affidato Marcellino al pastore, proseguirono insieme a Nino per le strade di Fiorentini. Arrivati a Sa Pastia, zona Ispedrumele, abbandonarono l’automobile e continuarono il loro viaggio a piedi, attraverso le campagne, in direzione Benetutti.
Gli misero un cappuccio in testa e dopo diverse ore di cammino arrivarono in un ovile. Con grande difficoltà fu calato al suo interno, legato con una imbragatura, dove vi rimase fino alla domenica mattina. Quel giorno Nino rifiutò il cibo, il suo pensiero e la sua preoccupazione erano infatti rivolti al piccolo Marcellino. Il lunedì venne obbligato a mangiare e fu informato da Grazianeddu che la sera si sarebbero spostati verso un altro luogo.
Il percorso che fecero fu lungo le sponde di un ruscello. Arrivarono in una grotta dove si trovava un altro prigioniero sequestrato: Giovanni Campus. I due ozieresi si riconobbero dalla voce, perché il cappuccio che indossavano non permetteva loro di vedersi in volto. Si abbracciarono piangendo, mentre i banditi si davano da fare per arrostire della carne da consumare come pasto. Nino apprese la notizia del rientro di Marcellino in famiglia da Giovanni, questi infatti aveva visto la foto del bambino con il nonno pubblicata sul quotidiano La Nuova Sardegna. La notizia che il figlio era sano e salvo, gli diede un’immediata serenità.
La zona in cui si trovavano si suppone fosse Monte San Giovanni, sopra Orgosolo, a 500 metri in linea d’aria c’erano i Carabinieri e la Forestale. Alloggiati in una baracca che serviva come vedetta alle guardie forestali, i banditi fecero scrivere a Giovanni una lettera da far recapitare ai familiari, mentre quella che aveva scritto Nino non fu spedita perché i genitori, attraverso la Nuova Sardegna, avevano mandato un messaggio ai rapitori dicendo che non avrebbero pagato il riscatto. Parole che suonarono come una sfida per i banditi.
Mesina partì a Nuoro per imbucare la missiva. Subito dopo la sua partenza, un altro trasferimento. Il mattino presto Giovanni sentì dalla radiolina dei banditi che Mesina era stato catturato dalle forze dell’ordine (in un posto di blocco della Polizia vicino a Orgosolo ndr) con ancora in mano la lettera di Giovanni, il suo orologio e quello di Nino. La sera stessa della cattura di Mesina, la banda decise un altro spostamento verso una località tra Nule e Benetutti, luogo dove trascorsero un periodo più lungo.
Venne il momento della liberazione di Giovanni. Nino gli diede la lettera, mai spedita, da consegnare al signor Bogliolo e indirizzata all’avvocato Franco Niedda. Lo incaricò inoltre di comunicare alla moglie Lucia e al fratello Mario di trattare direttamente al più presto con i banditi, stando attenti a seguire scrupolosamente le loro istruzioni. Lucia e il cognato si recarono all’appuntamento.
L’automobile doveva essere una 600 con due ruote sul portabagaglio, la parola d’ordine da pronunciare era Limbara, Gennargentu invece quella che avrebbero dovuto dire i banditi. La prima domanda che i sequestratori fecero riguardava i soldi, oltre a quelli già ricevuti (circa 5 milioni di lire) ne volevano ancora. Lucia rispose che denaro non ne avevano più.
I banditi, a tale risposta, minacciarono di uccidere Nino, a niente valsero le implorazioni della giovane moglie e del fratello. Il mattino, dopo l’incontro tra i familiari e i sequestratori, Nino Petretto, facendo finta di dormire, ascoltò il resoconto della trattativa. Lo svegliarono per informarlo che avevano deciso di ucciderlo perché la famiglia non voleva più pagare. Egli, sentendosi dire queste parole, provò una grande rabbia e desiderò scappare e uccidersi durante la fuga, tanta era la disperazione.
Uno dei banditi però lo tranquillizzò, dicendogli che avevano capito che soldi la famiglia effettivamente non ne aveva e che Mesina, dal carcere, aveva dato ordine di liberarlo. Finalmente arrivò il momento tanto atteso. I banditi lo fecero salire in sella a un cavallo e gli misero in tasca delle banane per sfamarsi durante il tragitto.
Dopo due ore di cavalcata, lo fecero scendere da cavallo per poi farlo proseguire a piedi. Arrivati sulla strada asfaltata nel bivio Bitti-Osidda gli dissero di andare nella direzione di Osidda, cosa che lui fece seppur con fatica, a causa della stanchezza accumulata dalla precedente camminata. Arrivò ad Osidda verso le tre del mattino con le gambe doloranti. Suonò due volte al portone della caserma dei Carabinieri. Accertato che l’uomo era veramente l’ozierese sequestrato, i militari informarono immediatamente la caserma di Nuoro e quella di Ozieri.
Da Ozieri arrivò in breve tempo il capitano Vincetelli per riportare a casa Nino. Dopo varie formalità uscirono dalla caserma e con meraviglia videro che nella piazza antistante si era riunita tutta la popolazione di Osidda per salutarlo. Dopo aver risposto al saluto, salì in macchina con i carabinieri partendo in direzione di Ozieri. Al bivio di Osidda erano in attesa dell’auto con a bordo Nino Petretto, la moglie Lucia, la sorella di lei, Teresa, e dottor Masala, padrino di Marcellino.
Il brigadiere, fermata la macchina, fece sedere Lucia a fianco del marito per continuare insieme il viaggio fino alla caserma dei Carabinieri di Ozieri. Erano le nove del mattino del 19 aprile. Dopo 34 giorni di prigionia, ad attenderlo i suoi concittadini, in particolare quei volontari che cercarono di collaborare con le forze dell’ordine per la sua liberazione.