Trentatré anni fa il disastro del Moby Prince, tragedia che colpì anche il Monte Acuto e il Goceano
Nella sciagura persero la vita anche 30 sardi, tra cui l’ufficiale radiotelegrafista di Monti Giovanni Battista Campus e i passeggeri Maria Mela di Buddusò, Tonino Sini di Pattada, Salvatore Scanu di Alà dei Sardi e Angelo Canu di Burgos.
Trentatré anni fa, l’11 aprile 1991, avvenne la più grande tragedia della marineria italiana in tempi di pace: la collisione fra il traghetto della compagnia Navarma Lines, il Moby Prince, e la petroliera Agip Abruzzo, un gigante del mare di 280 metri di lunghezza e con una stazza di oltre 98mila tonnellate. A causa dell’urto divampò un grosso incendio che provocò la morte di 140 persone: 75 passeggeri e 66 membri dell’equipaggio. Trenta i sardi che persero la vita, fra loro, l’ufficiale radiotelegrafista Giovanni Battista Campus, 53enne di Monti, che lasciò la moglie Maria e due bambini, Alessandro e Anna Lisa. La tragedia colpì anche altri centri del Monte Acuto e del Goceano: con lui morirono carbonizzati i passeggeri Maria Mela di Buddusò, Tonino Sini di Pattada, Salvatore Scanu di Alà dei Sardi e Angelo Canu di Burgos. La drammatica vicenda segnò profondamente le famiglie degli estinti, scosse e indignò l’opinione pubblica sarda e nazionale.
La notte del 10 aprile, il traghetto mollati gli ormeggi alle 22:05 lasciò il porto di Livorno diretto ad Olbia, dove sarebbe dovuto attraccare all’Isola Bianca l’indomani mattina. Ma purtroppo non vi arrivò mai! Il viaggio infatti si fermò per sempre venti minuti dopo, alle 22:25, dopo che la nave a poche miglia dal porto, nella rada di Livorno, impattò tremendamente con la petroliera che gli aveva tagliato la rotta. La collisione fu spaventosa, tant’è che la prua del Moby Prince squarciò la fiancata dell’Agip Abruzzo.
Nonostante tutto, il comandante del Moby Prince, il sardo Ugo Chessa riuscì a fare “macchine indietro” e disincagliare il traghetto, ma l’urto fu talmente violento che scoppiò un furioso incendio. Giovanni Battista Campus dalla cabina delle telecomunicazioni lanciò diversi SOS: «May day – May day – May day, Moby Price siamo entrati in collisione, la nave prende fuoco!». Nel frattempo a bordo i passeggeri furono assaliti da panico, disperazione e lingue di fuoco! I soccorsi, non si sa il perché, arrivarono molto tempo dopo, quando non ci fu più niente da fare e la tragedia si era già consumata! Potevano essere salvati, ma nessuno li soccorse in tempo!
Solo l’indomani si capì l’orribile fine che fecero i passeggeri, quando il traghetto venne trainato in porto e si fece la macabra scoperta: 140 salme bruciate, la più piccola aveva un anno, la più anziana 83. L’unico superstite fu Alessio Bertrand, mozzo napoletano che riuscì a salvarsi camminando sui cadaveri. I Vigili del Fuoco lavorarono tutta la notte, ma non trovarono nessun altro in vita.
Cosa avvenne realmente in quelle drammatiche ore. Quali le cause che determinarono la collisione. Come mai la petroliera tagliò la rotta al Moby Prince. Perché i soccorsi arrivarono prima alla petroliera e non al traghetto di linea per salvare i passeggeri che erano a bordo. Sono tutte domande che, a distanza di 33 anni, fra inchieste giudiziarie e parlamentari, ritardi e omissioni, ancora oggi non hanno trovato risposte nelle famiglie delle vittime, che attendono da troppo tempo di sapere la verità.
Giuseppe Mattioli
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